6a Edizione - 2008

Articolo di Attilio Lauria

Il Festival della fotografia di Corigliano, organizzato dalla Associazione Culturale ‘’Corigliano per la Fotografia’’ con la direzione artistica di Gaetano Gianzi e Cosmo Laera, ha un aspetto che lo contraddistingue tra gli altri ed è il suo legame ombelicale con il territorio e la comunità che lo abita.
Non si tratta della semplice denominazione identitaria che ne denuncia l’appartenenza geografica, ma di un rapporto ben più profondo e complesso, attraverso il quale la comunità rinnova il proprio sguardo su una realtà altrimenti abitudinaria.
Iniziando da Gianni Berengo Gardin, il cui reportage venne pubblicato da Contrasto nel 2004 con il titolo di “Viaggio a Corigliano”, il Corigliano Fotografia ha infatti affidato ogni anno a un diverso autore il compito di rappresentare il proprio territorio, proiettato così in quella dimensione straniante che equivale ad una sorta di sospensione del tempo, all’interno della quale fiorisce la riflessione collettiva sulla contemporaneità.

Dopo i segni della stratificazione architettonica di Gabriele Basilico, la ricerca sull’area portuale di Francesco Radino, i ritratti di Enrico Bossan, e il taccuino di vita quotidiana di Francesco Cito, l’edizione di quest’anno, dedicata a “Fotografi e Fotografia del Sud”, propone un lavoro di Mario Cresci ispirato all’ulivo, da sempre albero icona della meridionalità.
Già nel secolo scorso Albert Camùs si interrogava sul ‘pensare meridiano’ come ridefinizione dell’immagine che lo stesso Sud ha di sé a partire dalla consapevolezza della propria identità, prospettiva fatta propria dal sociologo della postmodernità Franco Cassano nell’omomimo saggio, e qui dallo stesso Cresci, nelle cui immagini l’ulivo diventa “Oleum, metafora moderna dell’Agorà greca”, e dunque, metafora vivente di quella continuità tra passato e presente che è appunto l’identità.
Una continuità che permane senza dubbio nell’evidenza della connotazione del paesaggio,  tanto che Oleum è anche “il nome che ho dato a una straordinaria pianta d’olivo che ho cercato di accarezzare con le mani come se fosse realmente una persona”, dirà l’Autore di una immagine in cui l’ombra della sua mano si proietta sul tronco centenario di un ulivo, tra le cui rughe antropomorfe sembra riconoscere il placido, indifferente scorrere del tempo. Ma che per altri versi rivela le proprie incrinature negli indizi laceranti di un progressivo allontanamento, come nel vecchio oleificio dove la carcassa di un’ex opulenta Jaguar giace tra i torchi abbandonati, tristi monumenti di un’economia evidentemente non più identitariamente legata all’oleum.
E che infine, al termine dell’ideale percorso circolare attraverso il quale si snoda l’intera rassegna, alla ricerca di una traccia comune nei diversi Sud del mondo, ritorna come memento nelle immagini del “Paradiso perduto” di Elena Givone, limite oltre il quale un’identità incapace di ridefinire se stessa rischia di ripiegarsi in una declinazione zelotista.
Se le immagini dell’oleificio di Cresci, nelle quali si ritrova tutta la cifra stilistica dell’Autore, parlano di un legame sopito ma non ancora interrotto, negli ulivi carbonizzati della Givone la desolazione del paesaggio oltraggiato, sorta di macerie culturale visuale, diviene metafora di certo smarrimento contemporaneo che segna una soluzione di continuità di quel rapporto identitario.
Ma paradiso perduto, per altri metaforici versi, può essere anche una felice stagione della fotografia, che pur senza essere inclini alla nostalgia, si impone con la sua straordinaria forza espressiva sulle diverse pulsioni eterodirezionali del linguaggio fotografico contemporaneo. È quanto sembra dirci Claude Nori con i suoi “Mediterranéennes” chiamati a neorealistica raccolta, tra cui figurano, solo per citarne alcuni, Edouard Boubat, Enzo Sellerio, Inge Morath, Federico Patellani, René Burri, ed Henri Cartier-Bresson, presenti a Corigliano con quelle preziose, magnetiche stampe vintage che a volte trasformano in un brivido la visione. Come accade del resto anche per le intense e vagabonde immagini di Martine Voyeux: è ingenuo dirsi ancora rapiti da questa fotografia senza tempo che parla dell’uomo in modo così sensuale ed essenziale?
Immagini di un’epoca in cui l’identità di ciascuna singola comunità non era ancora insidiata dall’omologazione del pensiero egemone, ormai invasivo nelle “Mappe urbane personali” di Marina Misiti dove le città, mai ritratte direttamente, appaiono come frammenti riflessi nelle vetrine del commercio. Città mediate e rimappate dalle multinazionali del desiderio indotto dove mutano i riferimenti, e ai cui margini sopravvivono, accomunati da una medesima concettuale deprivazione identitaria, i “Prisioneiras de Lixo”.
Questi di Flavio Oliveira, che vivono tra la spazzatura e della spazzatura di una metropoli brasiliana, differenziandola a mano, e avviandola al riciclaggio, sono i prigionieri di una condizione sociale priva di speranza comune a milioni di altri diseredati delle bidonville del mondo, che trova raffigurazione nei volti spesso in ombra dei bambini, bui come coscienza ignorata dell’umanità.
Immagini dirette, senza alcuna retorica nè intento estetizzante, violente forse più della stessa rappresentazione della morte, di fronte alle quali non può non tornare alla mente l’irrisolto interrogativo di Susan Sontag, se cioè disegnare un inferno significhi dirci come liberare la gente da esso. Di certo, è un’umanità che senza queste foto neanche esisterebbe.
Una crudezza che si ritrova nelle immagini di Paolo Pellegrin, fotografo Magnum vincitore, tra gli altri prestigiosi riconoscimenti, di otto World Press Photo, ma che a differenza di Oliveira, si coniuga con un preciso stile espressivo incentrato su un uso decisamente marcato del contrasto, e dei tagli dell’inquadratura, che indubbiamente contribuiscono ad enfatizzare la drammaticità della scena. Selezione di immagini realizzate in più di dieci anni in zone di guerra, dal Kosovo al Medio Oriente, dall’Afghanistan all’Iraq, questa “As I was Dying” esplora con sensibile partecipazione il delicato spazio che circonda l’atto e il mistero della morte, un momento in cui, dichiara l’autore, “sento che sto cercando qualcosa che non posso vedere completamente ma che mi sta guardando”.
Oltre i Sud del mondo la rassegna propone poi alcuni fotografi del Sud, dai catanesi Carmelo Buongiorno e Carmelo Nicosia, che con “Altri orizzonti”, e “Ali 2008” propongono una ricerca sui nuovi linguaggi della fotografia, spazio da sempre presente al festival calabrese, a Emiliano Mancuso, Premio Attenzione Talento Fotografico 2005 della FNAC, con le sue “Terre di Sud”, portfolio di grande forza narrativa sulla società e i costumi del Sud.
Infine, la ricerca etnografica di Angelo Maggio e Francesco Paolo Lavriani sulle “Feste e Tradizioni nel Mezzogiorno”, che si incarica di custodire la memoria di riti le cui origini si fanno allegoricamente sempre più lontane, ma che nell’ottica della rassegna, e oltre l’intento degli Autori, suscita qualche malizioso interrogativo: quegli stessi allevatori che vediamo ritratti in riti sempre più folkloristici piuttosto che identitari, dei quali appaiono orgogliosamente sacerdoti e custodi, saranno poi metaforicamente gli stessi che quell’identità bruciano insieme agli ulivi della Givone?
Oltre i numerosi workshop e le mostre, allestite come di consueto nelle sale del Castello Ducale, uno dei meglio conservati di tutto il Meridione la cui costruzione risale al 1073, e dove nel 1354 nacque Carlo D’Angiò, divenuto poi re di Napoli nel 1381 col nome di Carlo III, la rassegna ha inaugurato quest’anno uno spazio dedicato alla lettura portfolio non a concorso, affidata a Massimo Morelli, presidente della Porphirius Image Bank, Ezio Bertino, responsabile comunicazione Seat Pagine Gialle e promotore dell’iniziativa ‘Pagine bianche d’autore’, Laura Serani, direttrice del SiFest, e al presidente della FIAF, Fulvio Merlak.
Con le sue presenze autoriali di spessore internazionale, e con le sue produzioni originali, il Corigliano Fotografia si propone dunque sempre più come una rassegna di estremo interesse che supera gli angusti confini territoriali, accarezzando il progetto, come rivela Gaetano Gianzi , di diventare una cittadella della fotografia nel cuore del Mediterraneo.

Attilio Lauria BFI
Dipartimento Attività Culturali FIAF
Redattore FotoIt

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