14a EDIZIONE 2016,  mostre 2016

Matteo Buonomo: Deshepe

© Gabriele Micalizzi.

Matteo Buonomo è un giovanissimo fotoreporter parte attiva del colletivo CESURA fondato da Alex Majoli. L’attività di Matteo si concentra sul reportage sociale e sui progetti di medio e lungo termine. I suoi racconti fotografici sono arricchiti da approfondimenti testuali e di indagine del territorio in cui si reca.


Ogni bambino o bambina che nasce qui è abcaso, ed è così che lo cresciamo.
Gocha, profugo abcaso.

Deshepe è il nome di un campo profughi in una vecchia caserma militare situata su una collina nella periferia della capitale Georgiana, Tbilisi. Nel 1992 sotto l’avanzata dell’esercito Russo oltre 200 mila georgiani furono costretti a lasciare per sempre le loro case e la loro terra, l’Abcasia, all’ingerenza Russa. I profughi in fuga da quella guerra occuparono gli edifici che erano disponibili in quel momento: scuole, uffici o vecchie caserme come Deshepe. Qui circa 500 persone vivono in condizioni difficili, sulla soglia della povertà e con uno standard di vita decisamente più basso rispetto a chi vive in città. Per questo motivo nel corso degli anni molti profughi di quella guerra hanno abbandonato gli edifici che avevano occupato e si sono trasferiti in abitazioni private in diverse città. Mescolandosi con altri georgiani sono nate nuove generazioni che di fatto non erano più identificabili come profughi abrasi. Chi vive a Deshepe ha fatto una scelta diversa. Vivere qui significa privarsi di molto ma non della propria identità e del legame con la propria terra, che quasi 25 anni di lontananza non hanno scalfito. Un legame viscerale, un profondo bisogno tenuto vivo da riti collettivi come la Supra, un momento in cui vino, chacha, aspirazioni e preghiere si mescolano per celebrare le cose più importanti per queste persone. In momenti come questo è chiaramente comprensibile che non è la rassegnazione a tenere qui le persone ma l’orgoglio misto alla paura di perdersi. Chi vive qui conosce il valore della resilienza, sa che questa sfibrante resistenza è l’unico modo per tenere aperta una questione mai risolta, perché finché esisterà un solo profugo abcaso esisterà un’Abcasia georgiana.

 

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